In molti ancora pensano alla violenza di genere solo quando compare l’occhio nero sulla faccia di una donna. Questo fenomeno riguarda invece tutte e tutti noi e ci chiama a prendere una posizione. La risposta alla domanda: “Ma io che c’entro?” è che davanti a un’ingiustizia non esiste la neutralità. Un’ingiustizia o la combatti oppure la sostieni perché tutti gli atteggiamenti che non la mettono in discussione sono atteggiamenti di complicità, attivi o passivi che essi siano. Anche il silenzio è complicità.
Ancora oggi nei nostri ambienti lavorativi capita di sentire colleghi e, purtroppo, talvolta anche colleghe – perché per essere maschilisti non occorre essere maschi – che sono ancora conviti che se una donna, anche una collega, si veste in un certo modo, ciò significhi inequivocabilmente una sua disponibilità sessuale, oppure che lo fa perché ha ottenuto o vuole ottenere qualcosa. E innumerevoli sono le volte che la professionalità di molte colleghe è stata valutata e giudicata anche tenendo conto delle chiacchiere e dei pettegolezzi sul loro conto che riguardavano esclusivamente la loro – anche solo presunta – sfera sessuale, il supposto numero di partner avuti, rendendo il loro corpo oggetto di discussione, critiche e giudizi che nulla ci incastravano con la loro capacità professionale. Ovviamente questi sono fattori che poi incidono sulla carriera di queste donne. Ci si arroga di parlare del corpo altrui perché si ritiene di avere il diritto a farlo, mentre questo diritto non c’è affatto. Anche questa è violenza di genere.
“Ma non posso dire a una collega che è vestita molto bene?” “Non posso farle un complimento?” Certo che sì, queste cose si possono fare, ma a seconda di come fanno sentire la persona alla quale sono dirette. Questo rende più chiaro – forse, mi auguro – che il rispetto dei corpi altrui e del modo in cui si definiscono non passa per protocolli di comportamento o prescrizioni linguistiche ma per un modo del tutto diverso di trattarsi tra esseri umani, di essere sensibili a ciò che altre, ed altri, sentono e provano.
C’è un modo per assicurarvi che una battuta, un invito o un complimento siano appropriati: imparate a notare l’impatto delle vostre parole e delle vostre azioni. Osservate cosa fa sentire a disagio un’altra persona. Fate attenzione ai segnali che indicano che si è oltrepassato un limite – limite che quasi sempre è un diritto altrui. Chiedete consenso e assumetevi la piena responsabilità dei vostri comportamenti relazionali, affettivi, sessuali. Fare tutto questo non è affatto sinonimo di debolezza: al limite è una dimostrazione di intelligenza.
L’obiettivo non è quello di far sentire gli uomini a disagio, ma di consentire a chiunque di sentirsi a proprio agio. Le molestie sessuali, i giudizi sui corpi, le “battute”, avvelenano l’ambiente per tutte e tutti. Chiunque ha il diritto di lavorare al meglio delle proprie possibilità, di vivere senza il timore di ricevere battute e – nel peggiore dei casi – proposte sessuali indesiderate.
Uno dei modi per superare queste discriminazioni e questi stereotipi è identificarli: occorre creare consapevolezza e sensibilità che possano permetterci di renderci conto di quelle piccole grandi ingiustizie che viviamo – e che talvolta inconsapevolmente perpetriamo – anche nel nostro quotidiano. Se non faremo questo sforzo difficilmente saremo in grado di formulare le giuste valutazioni sulla pericolosità delle situazioni vissute da quelle vittime di violenza che – grazie alla professione che svolgiamo – si rivolgeranno a noi per chiederci aiuto. Fare la differenza, in questi casi, può significare salvare vite umane.
Monica Giorgi – Presidente Nuovo Sindacato Carabinieri NSC