«E che ci vuoi fare, purtroppo è malato».
È così che ieri mi sono immaginato la richiesta di assoluzione – poi accolta – di Alejandro Augusto Stephan Meran, l’uomo che nel 2019 ha ucciso a colpi di pistola in questura a Trieste, i giovani colleghi Pierluigi Rotta e Matteo Demenego.
Non ho parole per descrivere lo sgomento e il disgusto che provo, prima da uomo e poi da poliziotto.
Ci insegnano che le sentenze si rispettano, ma come può pretendersi rispetto, se questo viene a mancare davanti alla sacralità della vita e davanti al dolore di famiglie i cui figli, fratelli, fidanzati, sono morti per niente?
Ancora una volta ci troviamo a fare i conti con una giustizia ingiusta nei confronti di chi veste la divisa.
Nel caso di Pierluigi e Matteo la giustizia non è stata ingiusta: semplicemente non c’è stata. Non si è fatta vedere, né sentire. Si è nascosta in un angolino. Eppure secondo me, secondo tutto il Paese, Meran sapeva bene cosa stava facendo quel giorno, altro che incapacità di intendere e volere. Ha saputo ben disarmare due poliziotti e sparare per uccidere. Non li ha minacciati, non li ha feriti alle gambe. Li ha ammazzati. Non uno, due. Avrebbe potuto ucciderne ancora altri, visto che è stato ben capace di ingaggiare un conflitto a fuoco.
Meran è un soggetto pericoloso. I giudici hanno disposto per lui il ricovero in una struttura psichiatrica, una Rems, ma lo hanno assolto perché ritenuto incapace.
Tradotto in due parole questo significa che la morte dei due colleghi non ha colpevoli, quasi se la fossero cercata.
Fosse successo a parti inverse, oggi staremmo a gridare alla giustizia giusta. Perché quando sbaglia un uomo in divisa con lui viene condannato l’intero corpo senza pietà. Perché se picchia uno, picchiano tutti. Se è marcio uno, son marci tutti.
Questa stessa gente, quella stessa giustizia, ignora però che quando muore uno di noi, moriamo un po’ tutti.
Quando riducono la pena a chi tenta di ucciderci o ci uccide, riaprono le ferie di tutti.
Le coltellate al petto di Yuri Sannino le abbiamo sentite tutti quando al suo aggressore è stata ridotta la pena in appello a 4 anni e mezzo.
Stessa cosa quando è stata ridotta la pena ai due americani accusati di aver ucciso di Mario Cerciello Rega.
Il nostro dolore non interessa a nessuno. Ciò che viviamo quotidianamente non interessa a nessuno: i nostri sacrifici, il doversela cavare con il poco a disposizione, l’assenza di tutele che ci rende vulnerabili e facili prede di chi strumentalizza le forze dell’ordine per professione. Siamo bersaglio preferito di antagonisti e violenti che non aspettano altro di vedere un manganello per sbatterci sui giornali e trascinarci in tribunale, con la testa rotta e i cocci delle loro Molotov nelle chiappe.
Di tutto questo non importa a nessuno.
Siamo numeri. Numeri sacrificabili.
Dormite sonni tranquilli, dicevano i nostri figli delle stelle.
Non so in quanti potranno effettivamente farlo. La coscienza sporca rende il cuscino scomodo.
Fabio Conestà – Segretario Generale del Movimento Sindacale Autonomo di Polizia (MOSAP)