L’Italia a livello militare, armerà i suoi droni. Gli Stati Uniti ammettono di aver, per errore, ucciso dei civili nell’operazione del 29 agosto di quest’anno, quando, nella caotica ritirata delle forze della Nato dall’Afghanistan, avevano condotto una operazione, sempre attraverso tali aeromobili, con l’intento di colpire dei terroristi nei pressi dell’aeroporto di Kabul; sempre un drone, ancora, “sorpreso” a consegnare una pistola nel carcere di Frosinone, dove, di lì a poco, sarebbe seguita una sparatoria. E si potrebbe continuare ancora.
Insomma, questa nuova tecnologia è, ormai, quotidianamente, agli onori della cronaca, tra luci ed ombre.
Ne abbiamo voluto sapere qualcosa in più e abbiamo chiesto lumi ad un vero e proprio esperto in materia, l’avvocato Marco Valerio Verni, partendo proprio da questi avvenimenti.
Marco Valerio Verni è avvocato, titolare dell’omonimo studio legale internazionale. E’ esperto in diritto penale e diritto penale militare, nonché Consigliere Qualificato in Diritto Internazionale Umanitario per le Forze Armate. Ha frequentato, presso il Centro Alti Studi per la Difesa, il Corso su “CSDP Orientation Course” e quello su “Civilian Aspects of Crisis Management” dello European Security and Defence College di Bruxelles, il 16° Corso Cocim (Cooperazione Civile-Militare), il 17° Corso per Consigliere Giuridico nelle Forze Armate e la 15^ Sessione Speciale (67^ Ordinaria) dello IASD- Istituto Alti Studi per la Difesa, il più alto Istituto di formazione nell’ambito interforze della Difesa italiana. E’ attuale componente delle Commissioni consiliari di “Diritto Europeo e Diritto Internazionale” e di “Monitoraggio Legislativo e Giurisprudenziale” dell’Ordine degli Avvocati di Roma, nonché membro della International Society for Military Law and the Law of War.
Abbiamo scelto lui per questo approfondimento, poiché reduce, tra l’altro, proprio in questi giorni, da una lezione, al riguardo, svolta presso il C.O.V.I.- Comando Operativo di Vertice Interforze, a Roma, nell’ambito del 76°Corso per Consiglieri Qualificati in Diritto Internazionale Umanitario, destinato ad Ufficiali delle Forze Armate ed alti Funzionari dell’Amministrazione Civile.
Avvocato Verni, partiamo dall’Italia che, a quanto pare, avrebbe deciso di armare i suoi droni, da come si evince leggendo il documento programmatico pluriennale del Ministero della Difesa 2021-2023. Come mai questo importante passo del nostro Governo? E come lo giudica?
La decisione del ministero della Difesa italiano, credo che vada letta alla luce dei mutamenti degli scenari globali e dell’emergere di un quadro sempre più complesso di minacce e del relativo modo di affrontarle.
Ciò, in un contesto caratterizzato da una rinnovata competizione militare tra gli Stati, molti dei quali hanno anch’essi “cambiato postura”, e che, oltre ai domini e alle modalità tradizionali, si esprime con caratteristiche tecnologicamente sempre più evolute anche in dimensioni c.d. emergenti, quali il dominio spaziale e quello cibernetico.
Certamente, tale scelta si pone nel solco di una politica volta a riposizionare l’Italia nello scenario internazionale, all’interno del quale l’Italia può e deve giocare un ruolo importante, anche in considerazione di un sano interesse nazionale che la vede impegnata, in particolar modo, nella direttrice strategica del “Mediterraneo Allargato”, l’area che, per quanto la riguarda, è quella di maggior interesse strategico.
Tralasciando pensieri di un mondo senza conflitti e senza armi (a tutti noi piacerebbe, ma la realtà è, purtroppo, altra cosa), penso che sia una svolta importante e positiva. Della questione, d’altronde, se ne era già interessato il governo Berlusconi che, nel 2010, in piena campagna contro i talebani, aveva chiesto a Washington l’autorizzazione ad armare i droni italiani ed acquistare gli apparati guida, salvo poi riceverne risposta negativa perché il sistema era considerato top secret; successivamente, nel 2015, l’Italia aveva rinnovato la richiesta, ottenendo, questa volta, il via libera del governo americano.
Certo, ora, il tutto, dovrà passare al vaglio delle aule parlamentari, come previsto, peraltro, dalla normativa al riguardo e, in particolare, dall’art. 536 del Codice dell’Ordinamento Militare, ed il dibattito sarà, presumo, piuttosto acceso.
A livello pratico, cosa cambia per i nostri militari?
Partiamo dal presente: ad oggi, gli APR, ossia gli aeromobili a pilotaggio remoto (come andrebbero tecnicamente definiti quelli che, comunemente, vengono chiamati droni) in dotazione alla nostra Aeronautica militare, non essendo armati, sono stati impiegati in operazioni di sorveglianza e ricognizione nei teatri operativi (tra cui Iraq, Afghanistan, Libia e Kuwait: in quest’ultimo Stato, per le operazioni contro l’Isis) dove hanno operato: il loro utilizzo, in termini pratici, ha consentito a numerosi convogli di non saltare sulle mine o di non cadere in imboscate.
Il fatto che ora si sia deciso di armarli, permetterà al personale impiegato a terra di lavorare con maggior sicurezza potendo contare, la rispettiva linea di comando, su una fondamentale opzione per neutralizzare eventuali minacce prima che queste possano manifestarsi.
In effetti, la questione è delicata, dal momento che, sia a livello etico che di diritto internazionale, la questione sull’utilizzo dei droni nelle operazioni militari è piuttosto controversa, anche a causa dell’uso che, per i critici, è divenuto troppo frequente e, in un certo senso, disinvolto. Senza considerare gli effetti collaterali, di cui, ad esempio, abbiamo avuto una tragica conferma proprio di recente. Mi riferisco, per venire al secondo fatto prima accennato, dell’uccisione di civili da parte degli Stati Uniti, in una recente operazione nei pressi dell’aeroporto di Kabul, in Afghanistan. Può spiegarci meglio?
Partiamo dalla prima parte della sua domanda: effettivamente, ad oggi, l’uso di questa tecnologia è alquanto discussa, sì, tanto a livello etico che giuridico.
Per capire la genesi di tale conflitto, occorre fare un passo indietro e tornare all’11 settembre del 2001 quando, come purtroppo tutti ricorderanno, furono abbattute le Torri Gemelle, a New York, e vennero colpiti altri obiettivi sul territorio americano, a seguito di un attacco terroristico di matrice islamica: tre giorni dopo (ossia il 14 settembre del 2001), il Congresso a stelle e strisce rilasciò al Presidente degli Stati Uniti l’Authorization for the use of military force against terrorists (AUMF), per consentire l’impiego di ogni mezzo necessario a perseguire i responsabili di quelle azioni criminali e ogni individuo o gruppo fiancheggiatore ad essi collegati, interpretando in maniera estensiva quel concetto di diritto di autotutela in risposta ad un attacco altrui che, accanto all’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nei casi in cui si renda necessario «mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale» (art. 42), è previsto come deroga (art. 51) dalla Carta delle Nazioni Unite al divieto di uso della forza, colà parimenti sancito dall’art. 2, paragrafo 4, «contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato» o «in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite».
Da lì, l’uso dei “droni”, che, nel tempo, è diventato sempre più frequente, giustificato dal fatto che, il loro utilizzo, da una parte, permettesse di compiere operazioni militari a “rischio zero”, dal momento che, il tutto, si svolgeva a migliaia di chilometri di distanza, da dietro una consolle (altro aspetto, questo, che si collega, in linea generale, alla mia precedente risposta), mentre dall’altra evitasse di dover inviare ingenti numeri di soldati sul campo (i c.d. “boots on the ground”), con tutti i risparmi, ben immaginabili, sia di vite che di denaro pubblico, di cui pure una amministrazione deve tener conto, soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica.
Essendo armati, i “droni” utilizzati dagli Stati Uniti, oltre che nelle missioni classiche prima dette (ISTAR-Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance), sono stati impiegati anche in quelle più prettamente “combat”, ossia con l’eliminazione di persone e/o obiettivi militari.
Proprio queste ultime hanno creato maggiori problemi a livello giuridico perché, nella comunità internazionale, ci si è domandati se l’utilizzo di “droni” in contesti simili fosse lecito, dal momento che, in realtà, non vi fosse uno stato di guerra formalmente dichiarato tra due o più Stati (nel qual caso, di conseguenza, avrebbe trovato legittimazione l’uso della forza, l’invasione di uno spazio aereo di altro Stato-sovrano, l’eliminazione di persone nemiche, e via dicendo, sempre, naturalmente, che il tutto si fosse svolto secondo le regole che- sembrerà un paradosso, ma è, fortunatamente, così- pure in un conflitto si devono, o si dovrebbero, rispettare e che afferiscono al diritto internazionale umanitario, altrimenti conosciuto, per l’appunto, come diritto dei conflitti armati).
E, sempre in quest’ottica, ci si è posti il problema se le uccisioni, tramite “droni”, appunto, di singole e determinate persone (c.d. targeted killings) potessero essere giuridicamente lecite (spesso, infatti, esse avvenivano, oltre che in un contesto, prima detto, di guerra non dichiarata, anche in momenti in cui, in realtà, la persona colpita non era impegnata in operazioni tali da giustificare una sua uccisione in un momento in cui era, per l’appunto”dormiente” e senza che, peraltro, fosse stata prima sottoposta ad un regolare processo e, eventualmente, condannata): e ciò, anche alla luce dei c.d. effetti collaterali, ossia, innanzitutto, l’uccisione accidentale di civili che magari, ad esempio, nel preciso istante in cui il “target” veniva colpito, si erano trovate a passare inaspettatamente di lì, rimanendo, quindi, a loro volta uccisi o feriti.
L’esempio che lei ha citato, ossia dell’uccisione di quelli che, inizialmente, si erano ritenuti terroristi, ma che poi si sono rivelati essere dei semplici civili, uccisi a seguito di un’operazione tramite APR condotta dagli Stati Uniti il 29 agosto scorso, vicino l’aeroporto di Kabul, è un caso che, drammaticamente, ben rispecchia quanto detto: un errore dovuto, quasi sicuramente, ad una valutazione sbagliata a livello “intelligence”, e che difficilmente può e potrà trovare giustificazione con lo stato di “concitazione” che stava contraddistinguendo quella zona in quei drammatici giorni.
Ma le potrei citare, tra le recenti uccisioni mirate più discusse, in termini di liceità, quella del generale iraniano Qassem Suleimani, avvenuta a Baghdad, in Iraq, il 3 gennaio 2020.
Al di là di questi specifici casi, però, la logica è la seguente: se, dopo tanti sforzi, ad esempio, si riesce ad individuare un terrorista, che si nasconde in un determinato posto, e si ha il ragionevole sospetto che, il giorno dopo, egli già non possa stare più lì, ed andare chissà dove, magari a compiere un altro attentato, occorrerà agire in fretta, e mettere sul piatto della bilancia diversi aspetti, seguendo i criteri generali. Quindi: necessità militare e sua inderogabilità, il vantaggio derivante dall’azione in questione, la proporzionalità dei mezzi impiegati, proprio per evitare, o ridurre al minimo, le perdite di innocenti.
Queste ultime, purtroppo, sono sempre possibili, e, per quanto cinica possa sembrare l’affermazione, prevedere delle morti di civili a fronte di una azione militare necessaria, condotta con proporzionalità ed idonei mezzi e metodi di combattimento, volta a conseguire un preciso ed importante vantaggio militare, è nella drammatica natura dei conflitti.
Ma le conseguenze, non a caso, di questo nuovo o, meglio, diverso, modo di condurre un attacco (quasi si agisse in un videogame ed il posto di combattimento fosse una playstation) si riverberano anche sugli stessi piloti di APR, nei quali si possono sviluppare delle vere e proprie patologie psichiche, come denunciato da diversi studi.
La questione, insomma, è complessa: ad oggi, comunque, nel rispetto di determinati parametri, le operazioni tramite “droni” sono consentite.
Passando dal “militare” al “civile”, un’ultima domanda gliela vorrei fare su quanto accaduto nel carcere di Frosinone, quando, di recente, un drone è stato “sorpreso” a consegnare un’arma ad un detenuto. Cosa si può fare perché ciò non accada più?
Purtroppo non è la prima volta che una cosa del genere accada: questa volta sembra essere stata una pistola, in altri casi è avvenuto con droga e cellulari. E non sappiamo se possa essere stato consegnato, in qualche caso, anche altro materiale.
Ennesimo problema, questo, che si inserisce in un contesto già altamente compromesso come quello dell’ambiente carcerario: non scopriamo certo oggi- sebbene non si sia fatto granché, nel frattempo, per migliorare il tutto- che esso presenti delle criticità che vanno dal sovraffollamento, alle condizioni igieniche precarie, all’assistenza sanitaria insufficiente, passando per la mancanza del personale della Polizia Penitenziaria.
Il tutto a discapito, da una parte, della effettiva funzione che dovrebbe avere la pena, ossia quella rieducativa, dall’altra, della stessa serenità del personale che, nei vari ruoli, si trova ad operare in quei contesti, in un mix letale che rischia di sfociare in fatti drammatici ed esecrabili che vanno da aggressioni, autolesionismo, suicidi e tentati suicidi a quelli accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ad aprile dello scorso anno.
Senza considerare un fenomeno terribilmente serio come quello della radicalizzazione terroristica, jihadista in particolare.
Tornando ai “droni”, quello che è stato utilizzato nell’episodio da lei citato, come in tutti gli altri, è chiaramente uno di piccole dimensioni, ad “uso civile”, acquistabile con pochissimo denaro e pilotabile da chiunque abbia un minimo di dimestichezza al riguardo.
Per contrastare tal tipo di pericolo, esistono vari sistemi di intercettazione, sia mobili che fissi, che, attraverso dei disturbatori di frequenza (jammers) permettono, come “risultato finale”, di forzare il ritorno dei suddetti al punto di partenza o di bloccarli a terra inibendone il decollo: occorre, come al solito, decidere quanto si voglia investire in tale direzione, anche in termini di risorse umane all’uopo specializzate.