“Il Covid-19 ha causato in Italia quello che in termine tecnico viene definito “Mascal” (Mass Casualty): una situazione che si determina quando il numero delle vittime o la gravità e il tipo dei malati supera le capacità di trattamento e le competenze del sistema sanitario”. Uno scenario praticamente da guerra, descritto da Daniele Pettorelli, Capitano medico e Capo Servizio Cardiologia del Poliambulatorio dell’Istituto Geografico Militare dell’Esercito Italiano inviato durante nell’epicentro dell’epidemia, a Lodi, durante l’emergenza.
Nel cuore dell’epidemia – Il Capitano Pettorelli si è ritrovato nel centro dell’epidemia nel momento della massima emergenza sanitaria. Da Firenze è stato mandato in servizio a Lodi, all’Ospedale Maggiore: lì, dove è scoppiato il primo focolaio italiano di coronavirus, dove sono state create le prime zone rosse, dove hanno iniziato complicarsi i quadri clinici e a sovraffollarsi le strutture ospedaliere. Ha lavorato come medico di Terapia Subintensiva Covid assieme a pneumologi, anestesisti e medici d’urgenza, militari e non, guardando in faccia una malattia nuova ma soprattutto i pazienti più duramente colpiti dal virus.
Sofferenza e sconforto – Da quella esperienza, ora che è tornato a casa, dice di aver imparato a “soffrire senza farsi prendere dallo sconforto” ma anche a godersi al massimo la sua famiglia “perché puoi ritrovartela lontana in un attimo”. Il Covid, infatti, ha lasciato da soli coloro che ha colpito ma anche, allo stesso modo, coloro che hanno provato a combatterlo sentendosi alla fine onorati e ricompensati dagli sguardi e dai sorrisi dei pazienti salvati. Ricordi che resteranno anche a distanza di tempo. “Ed è per questo che il virus va sconfitto”, racconta a Tgcom24 il capitano Daniele Pettorelli.
Quali erano le maggiori criticità al momento del suo arrivo all’Ospedale Maggiore di Lodi?
Sicuramente la sproporzione tra il numero di malati da assistere con cure ad elevata intensità e il ridotto numero di medici disponibili. Molti di essi, infatti, si erano contagiati ed erano in quarantena; altri erano stati destinati, per coprire carenze, a servizi di minor intensità e a curare pazienti non Covid.
Com’era la situazione nel suo reparto?
La Terapia Subintensiva era il reparto nel quale venivano ricoverati i pazienti in condizioni cliniche più gravi per ricevere trattamento farmacologico specifico e supporto ventilatorio avanzato prima di passare alla più alta intensità della Terapia Intensiva. Nello stesso tempo, era il reparto nel quale venivano ritrasferiti dalla Terapia Intensiva tutti i pazienti che superavano la fase iperacuta: insomma, un passaggio quasi obbligato.
Com’era il rapporto con i pazienti da un punta di vista umano?
La necessità di dialogo e di condivisione, per questi pazienti, era un bisogno fondamentale, quasi assimilabile a una funzione vitale, all’ossigeno che i loro polmoni cercavano di catturare ad ogni respiro. Il ricovero del paziente Covid, purtroppo, è infatti caratterizzato dalla solitudine.
Come la si può spiegare la solitudine dei malati di Covid?
Vista la difficoltà di comunicare con l’esterno, le principali paure, a volte, non erano dovute alla propria condizione ma alla lontananza dai famigliari e dalla preoccupazione per la loro salute. Spesso, infatti, molti casi di Covid si sono sviluppati all’interno dello stesso nucleo famigliare dove più persone si sono ammalate e sono state ricoverate contemporaneamente, quindi altrettanto contemporaneamente si sono persi di vista. Ricordo che una volta abbiamo dimesso un paziente lo stesso giorno in cui abbiamo ricoverato il padre. I due incrociandosi in corridoio si sono guardati e, pur non potendosi toccare, si sono incoraggiati e fatti forza a vicenda come per dirsi: “Dai forza, ci rivediamo a casa”. La determinazione a riabbracciare i propri cari ha sempre fatto la differenza e ha permesso ai pazienti Covid di farcela.
Di fronte a tutto questo come ci si sente?
Noi abbiamo sempre cercato di parlare con i pazienti, di offrir loro una parola di conforto, con il limite di non poter condividere pienamente sguardi e sorrisi a causa di mascherine e occhiali protettivi. Da un punto di vista pratico, il personale medico cercava di parlare il più possibile con i parenti dei ricoverati per tenerli informati. E la Direzione ospedaliera ha fatto di tutto per permettere ai pazienti di essere forniti di tablet, smartphone, caricabatterie per le videochiamate.
Come si reagisce di fronte a un dolore come quello causato da questa pandemia?
Ogni decesso fa soffrire, alla morte non ci si può abituare. Ma si può e si deve soffrire senza farsi prendere dallo sconforto. Anzi, si deve cercare di sfruttare il dolore per poter dare di più e operare sempre per il meglio dei pazienti. Quella che ho vissuto è un’atmosfera che non si può dimenticare facilmente. Per fortuna, nel tempo, tornano più alla mente gli episodi positivi, mentre quelli negativi vengono rimossi.
A distanza di tempo ci sono episodi e stati d’animo che tornano alla mente?
Soprattutto i “grazie” e i sorrisi dei pazienti. Ma anche i volti di tutti i colleghi con cui ho lavorato. E’ stato come vedere splendidi e concreti esempi di dedizione alla medicina, è stato come vedere veramente onorato il giuramento di Ippocrate che tutti noi abbiamo fatto.
Che cosa lascia un’esperienza simile?
L’onore di aver dato un contributo e un aiuto in un momento così grave. Certi valori che ho dentro si sono rafforzati: l’abnegazione, la dedizione al lavoro, la voglia di aiutare gli altri. Tutte cose che cercano di trasmetterti nel percorso di studi di medicina e all’Accademia Militare ma quando le provi davvero le senti ancora più forti. Un’altra cosa ho imparato: che è fondamentale vivere al massimo i propri affetti e la propria famiglia nel presente, perché il distacco può avvenire davvero in un attimo.
fonte tgcom24