Niente e nessuno era riuscito a piegarlo. I cercatori d’oro illegali, i taglialegna, la polizia, il governo. Nemmeno la giustizia e la condanna per uno stupro che ha sempre negato. Ci è riuscito il Covid 19. Dopo dieci giorni di sofferenze e malattia, muore Paulinho Paiakan, capo della tribù Caiapó Bep’kororoti, figura carismatica nell’Amazzonia indigena, leader amato e rispettato dalla folta comunità dei nativi brasiliani, protagonista di mille battaglie, artefice della Carta Costituzionale che nel 1988 ha sancito il diritto alla terra per 900 mila indigeni delle 240 tribù presenti in Brasile.
Aveva 60 anni ed è deceduto nell’ospedale regionale di Rendençao, nel Sud dello Stato di Pará. Assieme a nomi come Mario Juruna, Tuíria Kayapó, Ailton Krenak, Álvaro Tukano e Raoni Metuktire, il capo Paulinho ha scritto la storia degli indigeni moderni, i loro scontri, le loro sconfitte e le loro conquiste. Una storia che parte da lontano. Dai primi anni Sessanta del secolo scorso. Paulinho è ancora un bambino. Viene portato dai missionari ad Altamira. Diventa il primo Kayaker a scoprire il mondo dei bianchi, a imparare il portoghese.
Nel 1972 è assunto dal Funai, la Fondazione nazionale dell’indigeno. Lo prendono perché grazie a lui pensano di potersi avvicinare a quel folto gruppo di indigeni che resiste alla costruzione della Transamazzonica, la grande arteria che taglia in due la foresta pluviale. Il capo dei Caiapó non era contrario a questo sfregio. Ma si chiedeva se fosse proprio necessario, se non avrebbe aperto altre strade, quelle dei minatori illegali, dei tagliaboschi, di tutto quell’esercito di avventurieri e criminali attirati dall’oro, dalla ricchezza che l’Amazzonia nasconde sotto il suo mantello verde. Cosa puntalmente avvenuta.
L’esperienza nel Funai è importante per Paulinho. Decide comunque di tornare nel suo villaggio, Aukre, per scrivere il suo primo libro: racconta cosa ha visto tra i cantieri della Transamazzonica. È un successo. La notorietà gli attribuisce anche un ruolo che ha dimostrato di saper coprire sin da piccolo: media tra il mondo bianco e quello indigeno. Ottiene un primo risultato: l’espulsione di 5mila cercatori d’oro ammassati a Maria Bonita dove si favoleggia ci siano grandi vene di minerali preziosi. Non sarà una passeggiata. Deve spesso forzare la mano, minacciare una rivolta e poi tornare a dialogare.
Durante la lotta contro i primi garimpeiros accampati attorno a Maria Bonita tira fuori la sua anima di guerriero. Piazza i suoi su una collina che domina il campo dei cercatori: sono in pochi, ma sembrano molti di più. Visti dal basso, raccontano le cronache dell’epoca, fanno impressione. Paulinho scende verso la polizia che da giorni è sul posto. “Siamo migliaia”, dice all’ufficiale che guida il piccolo drappello di agenti. “Bisogna fare qualcosa o ci sarà un massacro”. Il bluff funziona, i minatori pochi giorni dopo rinunciano e lasciano la zona.
La seconda, grande battaglia, anche questa coronata da successo, lo vede impegnato contro la costruzione delle centrali idroelettriche sul fiume Xingu. Con un altro leader dei Kayapó, Kube-i, vola a Washington e incontra i rappresentanti della Banca Mondiale, della Casa Bianca e del Congresso. È il 1988: assieme all’antropologo Darrell Posey che li accompagna, denuncia che il progetto delle centrali è stato realizzato senza consultare le popolazioni indigene, che le loro terre rischiano di essere inondate per le deviazioni imposte al corso d’acqua. La Banca Mondiale congela il prestito e il progetto è bloccato.
Il governo brasiliano è furibondo. Posey e i due capi tribù sono arrestati. Vengono accusati di aver compromesso l’immagine del Brasile all’estero. Nel Paese c’è la dittatura militare, esiste uno Statuto degli stranieri che impone limiti precisi. La magistratura lo applica nei con fronti dei tre. “Una cosa mai accaduta in 500 anni di relazioni tra bianchi e indigeni”, scriverà Bosey. Paulinho e Kube-i vengono giudicati come stranieri. Il clamore internazionale mette in difficoltà il governo che però insiste nel processo. Verranno tutti assolti nel 1989 dalla Corte Suprema Federale. Seguiranno altri successi, conquiste di terre che vengono segnate da precisi confini e affidate definitivamente alle tribù indigene.
Fino alla trappola: nel 1992 Paulinho Paiakan è accusato di aver stuprato una studentessa, Sílvia Léticia Ferreira, 18 anni, a Rendeçao. La rivista Veja spara in copertina la foto dell’ormai celebre capo tribù sotto il titolo: “Il selvaggio”. La denuncia esce durante Eco-92, la conferenza mondiale sull’ambiente. Scatta l’inchiesta, arriva il processo, con altre battaglie e questa volta con una condanna: sei anni di carcere a regime duro. Gli concedono due anni e quattro mesi di arresti domiciliari. Nel suo villaggio. Per Paulinho è finita, cala la sua stella. Ma il suo contributo per la sopravvivenza gli indigeni del Brasile resta immortale.
fonte Repubblica