Roma, 7 giugno 2020 – Il mondo dei virologi è ormai diviso tra chi invita a una maggiore distensione e chi ritiene invece che il Coronavirus rappresenti ancora una minaccia. “Le persone vanno informate in maniera corretta – esordisce Massimo Clementi, ordinario di Microbiologia e Virologia all’università Vita e Salute San Raffaele di Milano –. Non voglio assolutamente fare polemica, ma quasi tutte le infezioni registrate negli ultimi giorni si riferiscono a soggetti asintomatici e paucisintomatici, affetti cioè da lievi sintomi di Covid -19″.
Professore, i focolai di trasmissione attiva documentati in quasi tutta la Penisola non devono quindi fare paura?
“Bisogna ancora essere attenti e non abbassare la guardia, ma non c’è più da allarmarsi. Il virus si è indebolito, lo attestano le evidenze cliniche: non ci sono più ricoveri in terapia intensiva, il numero delle polmoniti anomale è molto basso, da inizio maggio nei reparti non arrivano più pazienti con sintomi gravi”.
Un punto nodale è rappresentato dai dati.
“Sono molto d’accordo con quanto sottolineato dai colleghi dell’Accademia dei Lincei, che tengono tradizionalmente posizioni moderate: i dati ufficiali presentano delle lacune, la più evidente è la mancata distinzione tra asintomatici e non. Un altro aspetto importante è il mancato confronto con il numero dei tamponi eseguiti che, va da sè, incide sul totale in maniera rilevante”.
Il potenziale infettivo di un soggetto asintomatico è lo stesso di un paziente in cui il Covid si è invece manifestato?
“Nelle primissime fasi sì, ma per pochissimi giorni. Ci sono soggetti asintomaci che continuano a risultare positivi al virus anche per più di due o tre settimane, ma in quel caso si è visto che non sono più infettanti”.
Nei suoi laboratori lei ha confrontato i tamponi di cento contagiati della prima metà di marzo con quelli di altri contagiati nelle seconda metà di maggio. Cosa ha scoperto?
“Ogni singolo tampone del primo gruppo rilevava un indice di presenza del virus pari a 70mila, il secondo si aggirava intorno ai 700. Un’ulteriore dimostrazione della perdita di potenza del Covid -19, non soltanto per effetto del lockdown: l’analisi si riferisce a tamponi raccolti almeno dieci giorni dopo, rispetto a quelli in cui il paziente aveva contratto l’infezione. Questo significa che il virus si era replicato e amplificato più lentamente nei soggetti del secondo gruppo a prescindere dalla quantità iniziale che aveva prodotto l’infezione”.
L’indebolimento potrebbe essere stato favorito anche dall’arrivo di temperature più miti?
“Si può fare anche questa ipotesi considerando che quattro tipi di Coronavirus, tra cui quello che causa il raffreddore, con il caldo tendono a scomparire. Ma la ragione più importante è che il virus per sopravvivere deve adattarsi all’ospite, non ucciderlo”.
Alcuni attribuiscono la minor carica virale del Covid all’effetto barriera prodotto dalle mascherine. È così?
“Non escludo che la mascherina, assieme al distanziamento sociale, possa avere un effetto protettivo negli ambienti chiusi, ma trovo che all’aperto sia, in certi casi, controproducente. L’altro giorno ho visto un signore che faceva jogging con la mascherina ed era cianotico. Gli ho suggerito di toglierla per evitargli un infarto”.
Cosa pensa della seconda e temutissima ondata?
“Guardi, molti colleghi si esibiscono in vaticini e previsioni quasi fossero dei maghi. La verità è che non lo sappiamo. Il virus potrebbe tornare, ma anche scomparire come accaduto nel 2009 con quello della pandemia di suina, che aveva seminato il panico in tutto il mondo. Di sicuro guarderemo al Covid come un’influenza”.