Il telefono squillò in piena notte a casa Borsellino e fu come un tuono in un cielo carico di lampi. Dall’altro capo della linea la voce roca del magistrato disse: “Pronto, chi parla?”. Qualcuno dall’altro capo del telefono rispose e avvisò il magistrato che il comandante Emanuele Basile era stato ferito in un agguato a Monreale.
È la notte tra il 3 e il 4 maggio 1980, a Monreale si stanno svolgendo i festeggiamenti per il Santissimo Crocifisso, patrono della città. Il capitano dei carabinieri Emanuele Basile assiste ai festeggiamenti insieme alla moglie e alla figlia Barbara di quattro anni, in braccio a lui semi addormentata. I tre sono in via Pietro Novelli, poco dietro un killer della mafia – che poi fugge in auto dove lo attendono due complici – spara alle spalle e ferisce a morte il capitano dei carabinieri. “La moglie, che tenta di parare il colpo di grazia diretto al marito, si salva per un pelo, protetta da un’agendina con la copertina in argento massiccio in cui si conficca il proiettile: era un regalo di Emanuele – si legge nella ricostruzione -. Dopo aver cercato di rianimare il consorte non può fare altro che raccogliere la figlioletta tramortita, con la manina sporca di polvere da sparo; Basile viene intanto trasportato all’ospedale di Palermo dove i medici tentano di salvargli la vita con un delicato intervento chirurgico, ma muore durante l’operazione”. Nel frattempo, i carabinieri si mettono alla ricerca degli autori, scoprendoli ed arrestandoli nelle campagne limitrofe, mentre stanno ancora tentando la fuga: si tratta di Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia.
A raccontare i giorni immediatamente successivi a quella tragedia è stata la moglie di Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto, che nel libro scritto a quattro mani con il giornalista Salvo Palazzolo (Ti racconterò tutte le storie che potrò, Feltrinelli 2013) ricostruisce quella notte terribile. La corsa disperata di Paolo in ospedale con la speranza che Basile si sarebbe potuto salvare. Lui, il Capitano Basile, stretto collaboratore di Borsellino, che nel suo ultimo rapporto del 16 aprile 1980 scrisse del ruolo cruciale che il capo dei capi Totò Riina stava assurgendo nella mafia siciliana. Un faldone di documenti: con dati, movimenti bancari, prove schiaccianti sul traffico internazionale di droga. Un rapporto dettagliato che Basile consegnò a Borsellino il 16 aprile 1980. “Paolo che sbatte i pugni sul tavolo – si legge nel libro -. Paolo che piange per la morte del Capitano Basile. Paolo che diventa serissimo e che mi dice che niente sarà più come prima finché non scoprirà i delitti di Palermo”.
Basile era a Monreale da appena tre anni. Aveva scoperto, seguendo l’indagine che aveva sviluppato il commissario Boris Giuliano (ucciso dalla mafia nel 1979), l’esistenza di traffici di stupefacenti in cui erano coinvolti da qualche anno i corleonesi. Fiumi di droga ed eroina avevano invaso Palermo. Non solo Palermo e la Sicilia, perché la cocaina purissima poi prendeva il volo anche per altre destinazioni. Palermo in quegli anni è la capitale del malaffare e Basile intuisce, grazie ad accertamenti bancari innovativi per quel tempo, il nuovo business della mafia che dal settore dell’edilizia si è spostata sul più remunerativo settore della droga. Basile collaborava con lo stesso Borsellino che a Monreale aveva lavorato dal 1969 con la qualifica di Pretore della Repubblica, ma dal 1975 era diventato giudice istruttore a Palermo. Il resto della storia lo sappiamo, quello che poco si conosce è la storia di due servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro abnegazione alla ricerca di giustizia e verità. Due servitori dello Stato, ma soprattutto due uomini con le loro storie, le loro aspettative e la loro straordinaria voglia di vivere.
Il trentennale della morte del capitano Emanuele Basile si avvicina e questo nostro articolo vuole essere un omaggio a due uomini che non ci sono più, ma che con il loro impegno hanno provato a rendere migliore la nostra terra. Il resto lo dobbiamo fare noi: tutti, nessuno escluso. Perché come diceva Borsellino: “Palermo non mi piaceva per questo ho imparato ad amarla”.